sabato 26 dicembre 2009

Terzo al Premio Antonianum 2009


Il 24/12 mi è arrivata la notizia di essere arrivato terzo al Premio indetto dal Centro Culturale Antonianum di Milano. E' un premio a cui tengo perché è l'unico indetto nella mia città. Sono arrivato secondo nel 2006, terzo nel 2007, terzo quet'anno e sono stato menzionato nel 2005.





Ecco il racconto si è classificato terzo quest'anno:


Poi venne Primavera

Vieni, avvicinati per sentire bene la mia voce, resa esile dagli anni e dalla stanchezza. Voglio che tu ascolti attentamente, e non solo con le orecchie, quanto mi accingo a raccontarti.
Tu eri con me quella notte quando dall’alto delle mura, insieme a poche altre, assistemmo a una scena che ancora oggi mi riempie di dolore.


Sono rimasta l’unica a poterla raccontare, e non per molto ancora, e voglio che sia tu a bruciare nella fiamma del fuoco sacro questo dolore che mi porto nel cuore da allora. Che bruci nella fiamma tenuta accesa per la dea Vesta, che del femminile incarna l’alta ambizione e la pacifica pazienza! Che bruci in quella fiamma e non in quella delle guerre e delle battaglie che portano solo morte e dolore nella spirale infinita che gli uomini si ostinano a seguire.
Eri con me quella notte, ma per fortuna i tuoi occhi vedevano del mondo solo le macchie grigie dai confini incerti delle nuvole, di cui è formata la realtà nel principio di ogni creazione, e così era anche per te, di pochi giorni appena e avvolta dentro un telo tra le mie braccia.
Così tu non dovesti assistere allo spettacolo di inutile e vergognosa crudeltà di cui si macchiarono le mani i nostri fratelli, anche quelli che hanno nelle vene il nostro stesso sangue.
No, non interrompermi, e non alzarti!
Siediti di nuovo e ascolta. So bene come questa storia sia stata altrimenti raccontata: parlano di tradimento e di cupidigia, ma io c’ero e conoscevo bene la figlia del custode, e ti assicuro che lei era mossa da generosità e desiderio di pace e non da oscuri intendimenti, come gli uomini, a questa menzogna tutti accomunati, lasciano intendere.
So che cosa ti ha detto Numa Pompilio, il nostro Re, e so quanto tu lo rispetti e lo ami. Sai bene quanto anch’io lo ami e di come abbia in grande stima il suo pensiero e le sue azioni. Roma sarebbe un’altra senza di lui e potrebbe purtroppo diventarla, dato che già sento il rumore del metallo di quando vengono sguainate le spade, adesso che lui è vecchio e che potrebbe presto andarsene.
Proprio per questo voglio che tu custodisca questo segreto, che la storia raccontata dagli uomini non può permettersi di accogliere: la vidi, ferma in piedi, ad attendere da loro la risposta che le arrivò addosso con il peso dei venti scudi che la fecero cadere, seppellita sotto il metallo, e calpestata dai piedi dei Sabini, che entrarono in Roma schiacciandola e deridendola.

Hai ragione! Non si erano comportati meglio i romani, che dal loro Re avevano appreso a ottenere ciò di cui avevano bisogno rubando e uccidendo, e così fecero con noi in quella nefasta notte al Circo Massimo.
Io ero giovane allora, saranno passati quarant’anni ormai, ed era estate, il mese non so più, e comunque i mesi avevano altri nomi che nemmeno rammento. Ricordo invece che era estate, perché in quei primi giorni di caldo il mio corpo si era messo a sanguinare all’improvviso, in quel flusso che poi conobbi regolare per molti anni e che scandisce il tempo di noi donne, ricordandoci ogni mese che dal sangue viene la vita, e non solo la morte, come sembrano credere gli uomini che lo vedono scorrere solo in battaglia.
Anche loro, però, persino mio padre e mio fratello, si accorsero degli altri segni di quel cambiamento che mi stava modellando il corpo in forme nuove, che io cercavo di tenere ben nascoste sotto i drappeggi della tunica.
I loro sguardi mi facevano sentire diversa, più di quanto facesse il sangue che mi colava sulle cosce, e mi obbligavano a sentirmi donna e non più bambina.
In ogni caso, la mia infanzia finì di colpo quella notte.
Già da tempo si narrava di quel popolo che aveva edificato la città di Roma nella piana ricca di pascoli che dagli appennini scende dolce verso il mare.
Ricordo mia madre parlare in cucina, mentre io l’aiutavo a preparare il pranzo, di questo popolo di avventurieri e di soldati di cui tutti erano curiosi, ma anche intimoriti.
I festeggiamenti, che Romolo, il loro Re, aveva indetto in onore di Nettuno Equestre, potevano essere la buona occasione per conoscerli meglio e per verificare con i nostri occhi i costumi e le abitudini di quella gente di pianura. Così aveva detto mio padre, e come lui molti altri, e fummo infatti in molti a intraprendere il viaggio che ci portò poco fuori dalle porte di Roma, nella vallata del Circo Massimo, dove ebbero luogo i festeggiamenti.

Già dall’alto del colle Quirinale notammo i fuochi che illuminavano tutta la vallata e gli schieramenti dei cavalli: quanti cavalli avevano i Romani!
Anche dagli altri colli scendevano tutti i popoli chiamati alla festa, in calata pacifica dagli appennini, le donne con i bambini in grembo e i padri che guidavano le file dei carri. I falò, disseminati attorno alla vallata, disegnavano un maestoso cerchio di luce come mai si era visto, e dentro vi correvano i cocchi trainati dai cavalli e condotti da giovani robusti con tanto di pennacchi colorati sulla testa. A un segnale, uomini appiedati infilarono delle torce in apposite fessure delle ruote e le accesero tutte insieme. La cosa a tutta prima ci preoccupò: che volevano fare? Ma quando vedemmo i cocchi con ruote di fuoco avanzare sfalsati lungo una linea obliqua, che muovendosi disegnava un cerchio concentrico a quello dei falò, furono solo applausi e urla di gioia per salutare quello spettacolo di luce che sorgeva nella valle, come se tanti astri brillassero, ruotando nella notte.
Ci conquistarono così, senza usare le parole di quella bella lingua che non ci era ancora comprensibile, ma con le lettere luminose di un alfabeto universale che parlò subito ai nostri cuori, riscaldandoli. Le nostre pance furono invece scaldate con la selvaggina arrostita sulla brace che veniva portata con generosità sui tavolati di legno, allestiti per la festa, o direttamente ai nostri carri, e le menti dei nostri uomini furono eccitate dal vino che scorreva inusualmente abbondante e buono.
La grande festa dei popoli, riuniti a celebrare il dio Nettuno Equestre e a salutare la nuova amicizia, andò avanti fino a tarda notte, e molti tra i nostri uomini si addormentarono, chi con la testa appoggiata sui tavolati, chi direttamente a terra. Ma, come mi raccontò molto tempo dopo mio fratello Numa, solo i nostri uomini avevano brindato con il vino, mentre ai romani erano state servite caraffe d’acqua, colorate col succo delle more e dei lamponi. Con il colore rosso, ottenuto dalla fresca spremitura di frutti del sottobosco, i romani avevano dissimulato la dolcezza della bevanda non fermentata, mentre le luci dei festeggiamenti erano state un sotterfugio per camuffare l’asprezza dei loro intenti, maturati nella forzata solitudine.

Le ho ancora addosso: le mani di quell’uomo che poi divenne mio marito e che in qualche modo imparai ad amare, o che accettai di amare, con la proprietà transitiva dell’amore, propria solo delle donne. Ma in quel primo momento e per molti mesi dopo furono mani estranee che mi stringevano da dietro all’improvviso, cingendomi sui fianchi e strappandomi le vesti, e il suo corpo un peso che mi cadeva sopra come una minaccia di violenza.
Non piangere, non è per parlar male di tuo padre che ti sto raccontando tutto questo. Gli volli bene dopo e gli fui vicino fino all’ultimo istante, e non sai quanto piansi distesa sul suo corpo inerme, che sanguinava sulla piazza, trafitto a morte da una lancia. Però devi sapere come le cose sono andate e di come gli uomini usino conquistare il mondo a colpi di fendente, sia per impossessarsi di un villaggio che per offrire il proprio amore.
Infatti le sue mani non erano state le sole a stringere fianchi e a strappare vesti in quella notte, ma all’improvviso quasi tutti i giovani romani si erano scagliati sulle più giovani e belle di noi sabine, mentre pochi altri tra loro erano bastati ad aver ragione della debole reazione dei nostri uomini, presi alla sprovvista nel sonno provocato dalle abbondanti libagioni.
Fui legata sommariamente e buttata, insieme a molte altre, su uno dei cocchi che prima erano serviti a riempire di luce i nostri occhi, che in quel momento erano invece colmi di terrore alla vista del fuoco che si alzava alto a fare una barriera contro i nostri uomini, che già stavano scappando verso i colli.
Dov’erano mio padre e mio fratello Numa? Gridai con tutta la forza che avevo in corpo, e il mio grido echeggiò nella vallata del Circo Massimo insieme a quello delle altre donne legate sui cocchi che correvano veloci verso le porte della città.
Il cielo era rosso di fuoco quando il portone si richiuse dietro di noi.
Così entrai a Roma, la nostra amata città: come prigioniera.

Era già autunno quando capimmo che eravamo diventate romane, spose degli stessi uomini che ci avevano scelto in fretta tra le altre col furore del desiderio che avevano in corpo. Infatti non ci resero schiave o prigioniere, e il loro intento non era diverso da quello degli altri uomini che sempre vedono nella donna la soddisfazione del desiderio e la ricompensa della prole. Diversa invece era stata la brutalità del loro comportamento, che ci aveva separato in un istante dalle famiglie e costretto a trasformarci in spose di quegli stessi uomini che ci avevano rapito e violentato.
Ma che altro ci si poteva aspettare da un popolo di soli uomini, guidato da un Re terribile e violento che aveva ucciso il fratello pur di non aver rivali al potere?
Non fui la prima ad accettare la situazione e anzi all’inizio mi meravigliai e inorridii nel vedere gli atteggiamenti di affetto e di riconoscenza che alcune tra noi sabine avevano subito riservato loro. Io all’inizio ero sempre in attesa, certa che i nostri uomini sarebbero tornati in forze per riportarci alle nostre case, ad abbracciare le nostre madri, i padri, i fratelli. Dov’era mio fratello Numa in quei giorni? Faticavo a sentirlo e la cosa era molto strana, dato che avevamo sempre avuto quel forte legame che ci teneva uniti e vicini in ogni momento.
L’uomo che ero stata costretta a sposare si era dimostrato molto dolce nell’intimità, quando smisi di opporgli la strenua resistenza dei primi tempi, e comprensivo della mia giovane età e assoluta inesperienza. Imparai anche ad apprezzare Roma: era già una bella città, molto più grande e ricca del mio villaggio sabino, e i romani, una volta che si erano accasati, si rivelarono uomini capaci e volenterosi di farla progredire e crescere.

In inverno, insieme alla città, crebbero anche le nostre pance: credo che poche città della storia abbiano visto tante mezzelune crescere in giovani ventri femminili, come quell’anno a Roma!
E con le pance - dentro le nostre pance - crebbero sentimenti diversi. Roma non era più una città che ci aveva rapito: ora era entrata in noi e il suo futuro cominciava a muoversi dentro di noi. L’attesa si trasformò in paura. Che cosa avremmo fatto quando i nostri padri e fratelli sarebbero tornati a prenderci? Che cosa sarebbe stato di quel futuro che cresceva dentro di noi? Da che parte saremmo state: col nostro passato o col nostro futuro?
A Roma in quell’inverno, insieme al futuro, crebbe l’angoscia.
Poi venne Primavera.

Sì, intendo la stagione che fa rifiorire la natura, dopo il freddo dell’inverno e la morte apparente degli alberi, che si portano dentro il legno scaglioso il verde delle foglie e il colore dei fiori, protetti dalla linfa calda che scorre dentro loro, comunque. Sì, così era stata anche quella primavera a Roma, e i fiori comparvero dentro ogni casa, anche dentro la nostra. Ma quello sbocciare era stato accompagnato, anzi scandito da un dolore che i nostri giovani corpi non conoscevano e che le nostre menti impreparate nemmeno si potevano immaginare.
Non c’erano state mamme a prepararci e solo poche nutrirci ad aiutarci, e quello che sempre è stato e continuerà ad essere un atto di dolore, per noi sabine, gravide del futuro di Roma, fu spaventoso quasi quanto lo fu il nostro ratto, e sicuramente ben più doloroso. Nessuno mi aveva detto che cosa mi sarebbe successo e come mi sarei dovuta comportare, e quando cominciai a sentirmi aprire in basso, come se due mani mi stessero divaricando il corpo proprio là, dove da poco avevo appreso esserci una sorgente di piacere, mi misi a gridare e a invocare pietà.
Erano assalti che duravano secondi: scalpelli che picchiavano da dentro con colpi che si facevano via via più intensi, e poi smettevano, come se le mani invisibili si fossero stancate nell’azione.
Piangevo in quelle pause e chiamavo mia madre e anche Numa, sì, anche mio fratello che mi era sempre stato vicino, e che mai come in quei momenti ritornavo a sentire lì con me per cercare di calmarmi. C’era invece una donna sconosciuta, che correva però da una casa all’altra, dato che non ero la sola a partorire quel giorno, e lei lo ripeteva come se fosse stata una mia decisione o addirittura una colpa.
Poi riprendevano gli scalpelli, anzi erano martelli i cui colpi mi risuonavano nelle tempie e mi facevano scuotere il corpo come una fronda al vento, e la donna cercava di tenermi giù, per paura che volassi via per scappare dai martelli. Ma non c’era posto dove scappare: picchiavano da dentro, e più mi difendevo da quei colpi, più si facevano insopportabili e mi sentivo squartata, avendo l’impressione di essere tagliata in due fino alla gola.
La donna prese a buttarsi sulla mia pancia e spingeva col suo peso dentro il mio squarcio; io cercavo di scacciarla, ma non avevo la forza necessaria e non ero assolutamente in grado di coordinare il movimento.
Ero in lacrime, disperata e dolorante, ormai pronta a morire, dato che di altro non poteva trattarsi, quando mi sentii uscire da sotto: qualcosa di me usciva da dentro e scorreva fuori in un liquido caldo. I martelli ora tacevano e c’era solo il liquido fluire dell’essere di sotto, e il mio io quasi incosciente che volteggiava sopra, da qualche parte.
Ti sentii scivolare tutta fuori, e poi ci fu solo il tuo pianto a dirotto. Mi dimenticai del mio corpo quando riuscii a vederti in braccio alla donna.
Eri nata tu: la prima romana nata da una mamma sabina.
Ti chiamai Primavera.

Mi rendo conto che per te Numa Pompilio è soprattutto il nostro Re, e che in più apprezzi con la mente e con il cuore il fatto che lui sia anche tuo zio.
Ora io ti chiedo di pensare a lui come a un semplice giovane sabino, quale è stato, sebbene quei tempi siano così lontani da apparire improbabili anche a me. La storia talvolta utilizza le persone per i suoi fini, e le trasforma talmente da renderli quasi irriconoscibili a se stessi. Così è stato per mio fratello gemello Numa.
E’ difficile spiegarti cosa significhi essere gemelli o perlomeno che cosa abbia significato per Numa e me. Infatti non è materia per la mente, ma la spiegazione risiede in parti del corpo che abbiamo condiviso fin dal concepimento. Io ho sempre sentito ciò che succede a lui: se abbia male, se provi dolore o paura. E lo stesso ha sempre provato lui per me.
Me lo spiego come se la condivisione dello stesso ventre nei lunghi mesi della gravidanza avesse messo in sintonia la nostra sensibilità, forse per permetterci di meglio sfruttare quello spazio angusto senza danneggiarci a vicenda. Una complicità di intenti a livello fisico, più che mentale. Una complicità sviluppata nei mesi prenatali a un punto tale che una risonanza di quel fenomeno è rimasta attiva dentro di noi, una volta nati e cresciuti come due esseri separati, e perdipiù di sesso opposto.
Capisci quindi come mi parve strano non riuscire a sentirlo in tutti quei mesi a Roma, dato che la distanza non aveva mai influito in alcun modo su di noi.
Credo che sia stata la mia mente a non volerlo più sentire, tanto era il dolore e lo strazio dei primi mesi e la paura che avevo provato. Avevo opposto una barriera tra me e lui: sebbene sperassi di essere liberata, forse avevo già capito che ormai avrei vissuto e sarei morta da romana.
Ma il dolore del travaglio e del parto aveva bucato quel muro nella mente, e da lì lui era rientrato in me e io in lui.
Numa non mi sentiva da mesi ormai e mi credeva morta, così mi confessò più tardi. Quando riprese a sentirmi, provò un tale dolore, e dritto nella pancia, che fu certo che mi stessero facendo del male.
Appena io mi ripresi dall’esperienza travolgente della tua nascita, capii subito che lui avrebbe fatto di tutto per liberarmi, e mi sentii nuovamente lacerata: i sabini sarebbero venuti in armi per combattere contro Roma, quindi anche contro la mia nuova famiglia.

Da giorni mi recavo ad attenderli, insieme alle altre, alla rupe Tarpea, come oggi è nota. Tarpea, allora, era solo il nome della figlia del custode di una delle porte di Roma che dannno sul Campidoglio; sapevamo che i sabini avrebbero cercato nottetempo un varco tra le mura e riuscimmo a convincere Tarpea ad aprir loro la porta, chiedendo che in cambio depositassero le armi, e a entrare quindi in pace. Noi avremmo poi convinto i nostri mariti a accogliere la loro richiesta di pace. Ero certa che Numa e gli altri avrebbero accolto la richiesta di una fanciulla senza temere un tranello, se lei si fosse esposta spontaneamente e avesse parlato loro con l’innocenza che le veniva dall’età.
Lei come donna aveva capito che altrimenti gli uomini, da ambo le parti, avrebbero combattuto a morte con l’intento di difendere le stesse donne: i sabini per le figlie e le sorelle, i romani per le mogli e le madri dei loro figli.
Dovevamo evitare quell’assurdo spargimento di sangue che avrebbe prodotto solo dolore e strazio, e che avrebbe diviso ancora di più i popoli e le persone.
Fu coraggiosa o solo incosciente per la giovane età.
Certamente, invece, non tradì in cambio di monili d’oro, come vuole la leggenda che la ricoprì di un’infamia più pesante del metallo degli scudi sotto i quali perì. Quando i sabini arrivarono davanti alla sua porta, lei la aprì chiedendo che in cambio si liberassero di quanto portavano nelle mani, con ciò intendendo le armi e non certo i gioielli. Infatti loro eseguirono alla lettera la richiesta: le gettarono addosso gli scudi ed entrarono in Roma calpestandola, uno dietro l’altro.
Li vidi bene dalla rupe, e con me anche le altre che ora sono morte e non possono più raccontare. Li sentimmo anche ridere alle urla strazianti della giovane e li vedemmo avanzare sul suo corpo coperto dagli scudi, come su di un ponte provvisorio gettato sulle acque torbide di uno stagno.
Vidi anche Numa e non glielo perdonai mai.
Sì, così morì Tarpea, ed è giusto che tu pianga per lei, ora. Molti hanno riso invece, e ancora più numerosi sono stati quelli che dopo l’hanno giudicata traditrice, dato che a tutti, sabini e romani, faceva comodo scaricare su un’inerme ragazza la colpa di quell’inutile battaglia. Avevano avuto la loro Tarpea, e dopo di lei ne ebbero tante altre da buttare giù da quella rupe, spesso per pagare colpe di altri.
Imparai quel giorno che gli uomini, anche i migliori, possono macchiarsi delle infamie più tremende quando la loro individualità è nascosta dalla forza maschia del gruppo. Capii così le guerre e perché gli uomini eccellano in quell’esercizio di crudeltà sublime.

Non so dirti della battaglia che seguì, come mi chiedi. Di più e nei dettagli puoi saperne dagli uomini che la combatterono, siano essi sabini o romani, adesso che sono riuniti sotto un solo regno, e sempre generosi di racconti d’armi.
Ti posso invece raccontare del silenzio che calò improvviso in piazza, quando noi donne - figlie e sorelle di uomini sabini, mogli e madri di uomini romani - sfilammo, drappeggiate di nero, in un corteo funebre in mezzo alle pozze di sangue e ai cadaveri riversi a terra.
A testa bassa, senza guardare gli uni e gli altri, come se fossero già tutti morti, avanzammo lentamente in una lunga fila nera con i nostri figli stretti in braccio, e intonando un canto dolente. Come passammo, gli uomini smisero di combattere e ci osservarono muti e fermi, lasciando cadere a terra le armi, capendo finalmente che la loro battaglia ci avrebbe reso orfane o vedove, in lutto comunque.
Questo non servì però a salvare tuo padre: quando lo vidi, giaceva riverso sulla piazza con l’addome trafitto da una lancia. Romolo, invece, fu ucciso dai suoi amici più fidati che ne nascosero i pezzi insanguinati sotto il bianco delle toghe.

Sì, venne Primavera su questa nostra dura terra di Roma, resa fertile dal sangue dei mariti, dei padri e dei fratelli.
Da allora, Numa Pompilio potè iniziare il suo regno di pace e di costruzione. Io ottenni da lui la licenza speciale per farmi sacerdotessa Vestale, in cambio del silenzio sull’uccisione di Tarpea, e tu sei cresciuta con le altre fanciulle destinate a diventare le custodi del fuoco sacro, che continuerà a bruciare degli intenti di pace e della pazienza delle donne.
Oggi, mia dolce Primavera, Roma affratella i due popoli prima divisi. Si sono fusi nel ventre delle donne, che sempre difendono la vita da loro generata.

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