mercoledì 15 settembre 2010

La mia rubrica mensile su Fenera

A partire da questo numero Fenera ospita una mia rubrica mensile dal titolo: Le opinioni di un clown.
In questo numero, Bestiario Americano, un taccuino di un mio viaggio in America Latina.

Bestiario americano


C'è un uomo che spacca teste di vacca. Le tira fuori dal cassone di un camion, scuoioate e sanguinanti, e già ce ne sono cinque o sei in strada, tutte con un taglio netto sulla fronte. Si serve di un'ascia picchiandola con forza e precisione, poi con le mani forza il taglio orizzontale e ne estrae il cervello tutto intero, il pezzo più prelibato, - mas rico - mi dice Antonio.

- Il resto lo butta via? - chiedo alla guida locale che ci ha accompagnati al mercato popolare di Toluca, quello della sua città, dato che non si è fidato di andare in uno di Mexico City, non c'è mai stato e non vuole sorprese. E’ stato poche volte anche in questo e infatti ha dovuto telefonare un paio di volte a sua mamma per farsi indicare la strada.

- Mia moglie non sa nemmeno che esista - continua Antonio. - Noi andiamo da Wal-Mart - dice palesando una certa fierezza.

Per entrare da Wal-Mart, il grande supermercato in stile americano, devi esibire una tessera come per un club, e poi cammini tra le file di imponenti frigoriferi dove conservano tutti i prodotti che si comprano lì, rigorosamente imballati in pacchi famiglia. Il frigorifero è anche una macchina che distribuisce il ghiaccio che spunta poi in grossi iceberg dai bicchieroni di coca-cola.


Al mercato di Toluca non ci sono frigoriferi e non c'è nemmeno il ghiaccio. Le carni rosse sono poggiate sulle piastrelle di ceramica bianca del bancone, quelle giallo limone dei polli pendono dall'alto. Più in basso ci sono le file ordinate delle zampe di gallina, delle creste di gallo; una montagnetta di trippa accampa su un bancone che si dichiara specializzato in interiora di vacca con un bel cartello di legno dipinto a mano. I due proprietari mi sorridono, mostrandomi il loro prodotto e dicendo qualcosa che non capisco.

- No intiendo - riesco a dire e me ne vado altrove, un po' imbarazzato.

Non me ne intiendo di interiora, di cervelli, di code di vacca che penzolano come festoni, di zampini di maiale, di tendini del muso del maiale che vengono fusi per preparare una sostanza gelatinosa che chiamano “queso de puerco”, formaggio di maiale.

Una intera testa di vacca con la fronte spaccata è poggiata su un bancone dove un uomo sta preparando dei tacos. Sembra solo decorativa, almeno è quello che penso.

- No - mi corregge Antonio. - Qui è considerata una leccornia.

Lo guardo stupito, poi rido pensando che mi voglia prendere in giro. Lui continua: - Ordini un tacos e poi lo strusci dove vuoi sopra la testa. Ci metti un po' si sangue, un pezzo di tendine oppure ci puoi mettere un occhio, che è la cosa più prelibata.

Usciamo dal mercato, l'uomo che spacca le teste è ancora lì. Adesso so perchè non le buttano via.

- Qui non si butta via niente - mi ha detto Antonio entrando.

Lui però fa la spesa al supermercato dove non si vedono le interiora del mondo e dove ti danno una bella tessera colorata.



Da Toluca ci dirigiamo a Teotihuacan, che in atzeco significa la città degli dei, un famoso sito archeologico poco distante da Mexico city.

Un cane randagio di pelo biondo dorme appena oltre la catena che delimita la zona non accessibile ai visitatori del tempio del serpente piumato. C'è una bella zona in ombra e lui si è sdraiato proprio lì, incurante del divieto.

Qui i nativi messicani attorno al 400 a.c. hanno edificato due grandi piramidi: una dedicata al sole, l'altra alla luna.

Sono salito su entrambe con non poca fatica, anche a causa degli oltre duemila metri di altitudine della zona. In cima alla piramide della luna ho ammirato tutto il paesaggio intorno, come poteva fare solo il loro sommo sacerdote quando vi saliva per celebrare il rito: il lungo viale che porta al tempio del serpente piumato, la piramide del sole sulla sinistra, più in basso le piattaforme dove venivano consumati i sacrifici umani agli dei.

I loro dei sono ancora scolpiti e ritratti su quelle pietre vecchie di duemila anni: rappresentazioni simboliche del mondo di cui avevano paura e rispetto, e i due sentimenti trovavano un punto d'incontro nell'adorazione e nel sacrificio: il sole, la luna, l'acqua, gli animali come il serpente, gli uccelli, il cane, come quello biondo che oggi dorme all'ombra del tempio.



Quest'ultimo, o più probabilmente uno che gli somiglia molto, dorme appena fuori dal palazzo del congresso nella piazza principale di Mexico city. L'interno è tutto affrescato con enormi dipinti murali dell'epoca rivoluzionaria. Ritraggono i conquistatori spagnoli mentre uccidono e umiliano i nativi in nome del dio dei cattolici. Molti tra gli spagnoli hanno facce da scemo del villaggio, altri sono ritratti in espressioni cattive, mentre frustano e torturano oppure mentre contano con avidità il denaro in disparte. Appena più indietro un prete scaccia un cane dal sagrato di una chiesa.

I simboli della rivoluzione trionfano sui conquistatori e liberano il Messico nei murales successivi, dove un barbuto Marx, curiosamente somigliante alle raffigurazioni canoniche del dio dei cattolici, sovrasta e domina la scena.

Quando esco dal palazzo, mi guardo in giro alla ricerca del cane di pelo biondo. Se ne sta in disparte a osservare due bambini che rincorrono un pallone sul marciapiede. A prima vista, nulla di strano, solo che il pallone conteso dai due è contenuto in un sacchetto di plastica, così non si rovina. Figuriamoci se lo lasciano prendere dal cane.



Ritrovo il bastardino qualche giorno dopo in Perù.

Abbaiando, si butta sotto la nostra macchina nella zona desertica attorno a Nazca. L'autista non fa niente per schivarlo, con la compassatezza della gente di qui a noi incomprensibile, ed eccolo ricomparire dal finestrino posteriore impegnato a inseguirci per nulla impaurito. Dopo qualche centinaio di metri desiste dall'impresa e vira improvvisamente sulla destra in un campo di croci sgangherate, facendoci così notare il cimitero attuale, come Maria, la guida locale, definisce questo luogo lontano da ogni centro abitato visibile dove vengono seppelliti i corpi di chi non ha i soldi per pagarsi una tomba nei cimiteri ufficiali. Siamo diretti al sito archeologico di Chauchilla, una vasta aerea di deserto tutta ricoperta di ossa, brandelli di tessuto e cocci rossi. Sono i resti delle migliaia di tombe del periodo pre-incaico e incaico, buttati lì a seccare al sole dai tombaroli che le hanno depredate degli ori e dei tessuti di valore mentre si sono sbarazzati di ciò che restava di quell'umanità che aveva creduto proprio nella sacralità del corpo e in una vita dopo la morte. Giriamo un po' spaesati tra la dozzina di tombe che sono state salvate, dove i corpi mummificati dell'antica popolazione di Nazca giacciono ancora nella posizione fetale che avrebbe dovuto prepararli alla rinascita. Alcuni di loro hanno lunghissimi capelli intrecciati in code che serpeggiano attorno ai loro corpi. Mi dicono che i capelli e le unghie continuano a crescere anche dopo la morte, forse l'unico modo umano della sempre bramata vita dopo la morte. I Nazca dovevano proprio credere con tutte le loro forze di essere portatori di un messaggio rivolto all'alto, a ciò che ci sta sopra la testa, e così hanno scavato nella pietra del deserto le famose “linee” inviando al cielo i loro segni ancora oggi immutati e precisi. Non c'erano alture lì attorno, non sapevano volare come nessun uomo in quell'epoca - siamo tra l'anno mille e il millequattrocento dopo Cristo - eppure sono stati in grado di realizzare giganteschi geroglifici distinguibili solo dal cielo: il ragno, la balena, la scimmia, il cane, il condor, il colibrì, una sorta di calendario zodiacale dell'epoca, dice la nostra guida dai tratti deliziosamente indios. Ciò che conoscevano, mi viene da pensare, il messaggio delle loro conoscenze e valori inviati verso il cielo, luogo dove sempre istalliamo la sede di ogni divinità, oppure semplice zona di un possibile atterraggio di qualcuno che era atteso, come fanno immaginare altri segni, questa volta geometrici - il trapezio, il triangolo - che sembrano dare una direzione, indicare dove scendere.

L'America non era ancora stata “scoperta” dalla nostra civiltà, ma da quelle parti i Nazca organizzavano minuziosamente i viaggi nel tempo, come li chiama Maria, nelle loro tombe concepite come navi per trasportare i loro corpi verso il futuro, e inviavano segnali al cielo e ai loro abitatori, chiunque siano stati e siano ancora oggi.

Ritrovo il cane con una zampa alzata sopra una croce del cimitero attuale, dove la vita e la morte valgono talmente poco che ci si può pisciare sopra. Lui occupava un posto nella cosmogonia Nazca, adesso ne occupa uno in una fotografia che gli scatto disteso in mezzo a quel deserto di croci di legno e fiori di plastica.



Ad Arequipa, seconda città del Perù, comiciamo a salire gli altopiani andini: 2600 metri, e già il fiato si fa corto e le gambe pesanti. Poi su, lungo la strada che si inerpica costeggiando gli allevamenti di vigogne, lama e alpaca, fino al valico a 4910 metri. Quando scendo dalla macchina mi sembra di essere un astronauta in atmosfera aliena. Cammino a piccoli passi come se fossi tirato all’indietro da una molla e tengo il naso alzato al cielo alla ricerca di ossigeno.

Ho fatto colazione col mate di coca, come suggeriscono le guide e continuo a masticarne le foglie nell’illusione di riuscire ad abituarmi più velocemente anche a questo spaesamento, che si aggiunge al cambio di emisfero terrestre, e quindi di stagione, all’inverno peruviano che di giorno scotta nei suoi deserti a trenta gradi centigradi e che la notte congela i rivoli che scendono dalle montagne, all’attraversamento di sei paralleli verso est, e quindi a sei fusi orari ai quali si aggiunge l’ora legale italiana.

Poi giù a rotta di collo verso le gole del del Colca, più di cento chilometri di montagne scavate dal Rio Colca a formare quello che viene ritenuto il canyon più profondo al mondo. Sulle due sponde le popolazioni pre-inca e inca hanno disegnato con precisione i terrazzamenti in pietra che vengono tuttora coltivati a patata, mais e cereali andini. Gradatamente, le pareti si fanno più scoscese come per proteggere il Rio nella sua corsa all’oceano, e sono i cactus dalle molte braccia rivolte al cielo a schierarsi in un presentat-arm al suo passaggio. Poi anche loro, come un esercito in resa, devono lasciare il posto al vento che diventa il padrone di quelle gole, dove il condor allarga i suoi tre metri di apertura librandosi placidamente sugli invisibili sentieri dell’aria. Scendiamo al Mirador del condor e ci mischiamo alla folla di turisti che l’attendono, cercando di sfuggire all’assalto delle variopinte venditrici di pochos, sombreros e collanine. Qualcuno giura di averne visto l’ala spuntare dietro una guglia, altri hanno visto la sua testa bianca dentro il nero di un anfratto. Mentre li ascolto alzo la testa e lui, leggero come l’aria su cui scivola, è lì a osservare la folla che lo indica a braccia alzate, puntando i cannocchiali e i teleobiettivi, come un esercito di cactus aggrappati alla montagna.

Nessun commento:

Posta un commento