Un canto
epico sulla Resistenza in Valsesia, rivissuta attraverso i tre personaggi
principali – un bambino, un professore in pensione, un giovane partigiano di
indole romantica – che la vivono ciascuno a proprio modo e più nelle intenzioni
che nella realtà. La Resistenza, quella vera, combattuta in venti lunghi mesi dai
garibaldini di Moscatelli, compare poco in questo romanzo.
E’ lo sfondo
tratteggiato sul quale si disegnano le anime dei personaggi di fronte alla
scelta che ogni italiano ha dovuto compiere dopo l’8 Settembre del 43.
Scegliere per non essere scelti tra le file delle milizie della repubblichina,
scegliere per non essere scelti per la deportazione in Germania, scegliere per
non finire fucilati contro il muro di una chiesa, come successe ai dieci
martiri di Borgosesia il 21 dicembre del 43. Proprio di quei primi ventun
giorni del mese di dicembre narra Giacomo Verri nel suo romanzo d’esordio ‘Partigiano
Inverno’, giorni che si dilatano fino a racchiudere simbolicamente tutto il
lungo cammino della Resistenza ai nazifascisti, giorni che trasformano la
quieta e pacifica valle del Sesia in un teatro di scontri, torture e
fucilazioni. Verri, però, non racconta gli eventi, non narra i fatti. Piuttosto
ci mostra l’incredulità della natura forte della valle – le montagne, gli
alberi, i corsi d’acqua – di fronte a questo spettacolo di morte, che
improvvisamente strappa il sipario del cielo. Lo fa con un linguaggio
straordinario, lirico, epico, romantico che via via si ibrida di termini
gergali, si sporca nel dialetto, tracima in arcaismi e neologismi che spesso
paiono avere più una valenza fonetica che semantica. Straordinarie in questo
senso le pagine che raccontano dell’eccidio di Borgosesia. Lì l’autore non
trova nella lingua che conosce (e molto bene) la possibilità di mostrarci il
teatro dell’assurdo e dell’orribile inscenato dalla Legione Tagliamento ai
danni della popolazione del paese. Non può, non riesce, non basta. Allora Verri
si arrampica sulle parole in allitterazioni onomatopeiche, sprofonda nelle
pozzanghere torbide del dialettismo, blasfema nell'osceno presepe dove si muovono frastornati santi e madonne violate, sporca la sua bella lingua con etimi che
paiono sassate, calci, pugni in pancia. Lingua sconvolta, non più di umani, per
descrivere fatti che andarono oltre l’umanità e fuori da ogni possibile
ragione. Dei tre personaggi ho amato il bambino e compreso il professore. Meno
mi ha colpito il giovane partigiano romantico, nota parzialmente fuori registro
nel concerto ben diretto da Verri. Partigiano Inverno non è una lettura facile e,
ancor meno, l’opera adatta a chi voglia sapere com’è andata. Piuttosto ne
racconta le emozioni, i turbamenti, il disgusto. E lo fa bene. Un ottimo
esordio, a tratti sorprendente.