lunedì 15 giugno 2009

Toniu Patoniu - inedito

Toniu Patoniu

Il nonno mi aveva portato sotto il Castello a cercare funghi, come spesso facevamo nelle mattinate autunnali su quella piccola montagna dietro casa. Sulla vetta, parzialmente nascosti dalla vegetazione, c’erano i resti del castello dei Barbavara, i signorotti che nel Medio Evo avevano dominato sul paese di Roccapietra.
Stava per albeggiare quando ci eravamo già arrampicati per un bel tratto nel bosco di castagni che dominava il paese. Il nonno si era seduto su di un largo masso a osservare i piedi delle felci bagnate di rugiada che prolungavano la loro notte frastagliata su un tappeto di muschio e foglie. Pochi metri più sotto c’era il laghetto di S.Agostino, nera e silenziosa macchia indistinguibile dal resto della notte.
- Perché ci fermiamo qui? - chiesi.
- Aspettiamo i funghi - rispose il nonno.
- I funghi non camminano, nonno.
- No, ma questo è il loro posto. È qua che spuntano all’alba.
Quel giorno, invece dei funghi, trovammo un piccolo pino. Il nonno decise di portarlo a casa e di piantarlo in mezzo al cortile.
- Crescerà insieme a te - aveva detto, mentre ricopriva le radici di terra fresca.

Il nonno moriva ogni anno alla fine del Carnevale.
Il giorno che lo scopersi, piansi a dirotto. Non capivo come tutto il paese potesse gioire nel mettere al rogo il suo temporaneo sovrano, il Re del Carnevale.
Il nonno ogni anno impersonava la maschera del paese, il Toniu Patoniu, sebbene non fosse più in età per farlo, ma ci teneva talmente che nessuno osava sostituirlo con uno più giovane e lui, tutti gli anni, si vestiva per due mesi, dall’Epifania fino all’ultima domenica di Carnevale, con il costume di Toniu Patoniu: giacchetta verde, pantaloni alla zuava di velluto marron e calze colorate a strisce. Parrucca e barba bianca non gli servivano, quelle erano sue da molti anni ormai, un vantaggio dell’età.
Quando lo vidi appeso a un lungo bastone e issato sul ponte sopra il torrente Pascone, capii subito che volevano fargli del male e iniziai a piangere a dirotto e a urlare - Perché? Perché? - mentre intorno a me tutti ridevano e gli davano fuoco con le torce.
Ogni anno il Carnevale bruciava in piazza e veniva purificato nel torrente Pascone, da dove scendeva lentamente fino al Sesia, per scivolare sulle sue acque gelide fuori dalla Valsesia, insieme ai Carnevali di tutti gli altri paesi della valle.
Il Toniu Patoniu incendiato e gettato nel Pascone era un pupazzo di paglia rivestito con i colori della maschera, ma questo me lo spiegò dopo il nonno a casa.

Il piccolo pino diventò il nostro albero di Natale. Il nonno aveva avuto quell’idea appena lo aveva visto là, piccolo e solo, in mezzo al bosco. Lo avevamo adottato e lui si era prestato al compito di colorare di verde il bianco della neve che intanto era scesa a coprire il cortile e tutti i prati intorno. Era ancora piccolo e non avremmo potuto utilizzare tutte le nostre decorazioni natalizie, ma solo le più belle.
Cominciammo con le palline rosse. Le passavo una a una al nonno e lui le appendeva sull’albero, stando attento che non fossero troppo pesanti per i suoi piccoli rami. Dopo avere infilato una ventina di palline, il nonno girò attorno all’albero con la ghirlanda argentata che, stranamente, risultò insufficiente a completare i giri. Andai in casa a prenderne un’altra e quando uscii con la decorazione il nonno stava cercando di infilare la stella sulla cima.
- Non c’è un albero di Natale senza la sua stella - diceva, ma nonostante fosse in punta di piedi non riusciva nell’intento. Andai nello scantinato a prendere la scala e appena fuori mi accorsi che tutta la parte alta del pino era spoglia. Dovevamo aggiungere altre palline rosse. Il nonno intanto era salito sulla scala per infilare la stella, ma giunto a metà gli venne mal di schiena e dovetti aiutarlo a scendere. Gli portai una sedia e lo lasciai riposare ai piedi dell’albero, mentre un timido sole invernale disegnava ricami sul suo volto stanco. Io ripresi il lavoro e svuotai due scatoloni di palline, pareva non bastassero mai.
Quando quelle finirono, fu la volta della stella, ma nemmeno io riuscii ad arrivare alla cima, ed ero ritto in piedi sull’ultimo scalino.
Scesi dalla scala per ammirare l’albero coi rossi frutti del Natale: era talmente alto che superava di un bel po’ la casa e gli addobbi ormai ne ornavano solo i rami bassi.
- Crescerà insieme a te - aveva detto il nonno, che intanto si era addormentato con la neve nei capelli.

Quando il nonno morì veramente e proprio nell’ultima domenica di Carnevale, pensai a uno scherzo. Aveva voluto sorprendermi ancora e bruciare il suo ultimo respiro proprio alla fine del suo regno provvisorio.
In piazza stavano distribuendo la paniccia, il piatto tipico del Carnevale valsesiano, cucinato dagli uomini del paese in enormi pentoloni di rame sul fuoco di legna.
La notizia della sua morte si era così mischiata ai fumi di quel minestrone scuro di fagioli, verze, patate e cotenna di maiale, ed era gocciolata nelle lacrime degli uomini, in piedi dalle sei del mattino per cucinarlo e affumicati dai suoi vapori. Avevano poi continuato a mescolare paniccia, lacrime e fumo con i lunghi bastoni di legno.
Il nonno l’aveva cucinata insieme a quei cuochi improvvisati e ai loro padri per tanti anni e, vestito da Toniu Patoniu, era andato col carretto trainato dal mulo a raccogliere casa per casa quello che ognuno era in grado di dare per preparare quel minestrone che sapeva di fumo e di storia.
Aveva voluto recitare la sua scena di commiato nell’ultima domenica del suo regno, Re come un tempo, provvisorio come sempre.
Li aveva voluti tutti lì, con mestoli e grembiuli bianchi a rimestare la sua morte dentro il brodo scuro di verze e fagioli.

3 commenti: