venerdì 28 maggio 2010

un mio racconto inedito per Fenera: Western story


Western story




Quando lo sceriffo Parson vede un mezzo sigaro schiacciato per terra, proprio sotto il bancone del locale dove si è fermato per bere un goccio, capisce che il vecchio meticcio è passato da lì, e non da molto probabilmente.

Lo raccoglie, lo annusa e se lo sfrega tra pollice e indice della mano destra. È leggermente caldo in punta e odora ancora di buono; la puzza di quel fetido locale non si è ancora impregnata nel tabacco.

Il sigaro schiacciato riassume la volontà del meticcio di calpestare tutto ciò che incontra sotto il suo tacco che pesta con violenza.



Chi altri ha il vizio di schiacciarli sotto lo stivale, compiendo una semirotazione col piede così che i mucci diventino piatti e parzialmente sbriciolati? Quanti mezzi sigari calpestati ha visto Parson nella sua vita? A volte ancora fumanti a terra, sparsi nei posti più impensabili. Sempre indizi del passaggio del vecchio, forse volontarie tracce che lascia dietro di sé.

Lo sceriffo ha passato la prima metà dei suoi anni a sfuggirgli e la seconda a dargli la caccia. Ormai è diventato un cane da sigari, che annusa la pista per capire in che direzione il meticcio si muova e che cosa stia combinando.

Ma questa volta lo prenderà: è vicino, sente la sua puzza di fuggiasco, abituato a dormire dove capita, senza neanche spogliarsi, sempre pronto ad alzarsi di scatto e a rimontare a cavallo al primo rumore sospetto.

Parson chiede al barista da quanto tempo non passi la scopa sotto il bancone, e dalla risposta vaga capisce che quello ha paura che lo voglia multare per l’igiene del locale. Gli viene da ridere. Dovrebbe multare se stesso, se andasse in giro a dare multe per mancanza di igiene. Se stesso e mezza Arizona. L’igiene e la pulizia non sono tra i valori guida di quei posti; ci sono ben altre schifezze cui pensare prima, e glielo dice: - Non dirmi stronzate, non me ne frega niente se pulisci o no il locale, ma mi serve per capire una cosa, dimmi la verità o ti sbatto dentro per falsa testimonianza.

Ride dentro di sé mentre dice quell’assurdità della falsa testimonianza, ma quello se la beve. La stella di sceriffo fa questi scherzi con le persone, e due indiani Navajo, che fino a quel momento erano seduti a fumare erba dalle pipe con quel fare intontito di chi non si aspetta nulla dalla vita, si alzano di scatto ed escono dal locale.

Quando uno sceriffo comincia a far domande e ad alzare la voce è sempre prudente essere da un’altra parte, e gli indiani si portano dietro da un paio di generazioni la paura, in gran parte motivata, che gli yankee portino sempre guai, in un modo o nell’altro.

È così anche per Annette, nonostante viva da tanti anni in mezzo a loro, o forse proprio per quello. Non si fida mai fino in fondo, nemmeno di lui.

- No, no, aspetta, non arrabbiarti - risponde il barista - Adesso che ci penso saranno almeno quattro ore che non scopo lì sotto, da quando ho aperto stamattina.

Ha poco più di quattro ore di vantaggio, allora, dato che il barista si ricorda anche che il tipo con il sigaro è entrato poco dopo l’apertura, ha comprato una bottiglia di whiskey ed è uscito subito.

Quattro ore: ormai gli è alle spalle, ne sente l’odore, o piuttosto la puzza. Rimonta a cavallo e parte.



Quello è stato un suo bivacco, non può sbagliarsi. Come sempre è andato via nel cuore della notte, lasciando ancora acceso il piccolo falò che l’ha riscaldato mentre ha chiuso gli occhi per qualche ora.

Lo sceriffo riattizza il suo fuoco. Curioso come si sia abituato a prendersi i suoi resti e a continuare quello che il vecchio ha interrotto!

Si sdraia supino. Il fuoco ha ripreso a lanciare fiamme, prima timide, poi sempre più alte verso le stelle, che si ostinano a picchiettare il nero della notte.

Cerca la sua stella nel cielo, quella che aveva scelto insieme ad Annette in una calda notte di dieci anni prima, mentre il meticcio ronfava ubriaco sul sofà della cucina e il cane continuava ad abbaiare in direzione di qualche ombra. Avevano dato un avanzo di zuppa all’animale affinché smettesse di latrare, per non rischiare di svegliare il vecchio, dovendo così interrompere quello che ancora non avevano iniziato a fare, ma che era nell’aria: quel breve spazio d’aria che separava ancora i loro corpi e le loro bocche, mentre da lassù le stelle li guardavano.

Dopo, Annette l’aveva accolto tra le sue braccia e l’aveva portato dentro l’odore notturno e acre del suo piccolo corpo, così come il cielo lassù accoglieva le stelle con silenziosa meraviglia.

Lui non aveva mai provato niente di più naturale e pieno nella vita che quel scivolare dentro il corpo di lei, come se tornasse a un luogo conosciuto da sempre, a un’intimità che era già stata sua prima che l’avesse immaginata, quando quella piccola indiana dai capelli corvini e due perle nere negli occhi era entrata in casa, trasformando la fredda angoscia dei lunghi pomeriggi invernali della sua infanzia nell’odorosa scoperta della virilità.



Il paesaggio è cambiato improvviso, come sa fare in quella terra d’Arizona: dietro un altopiano si è aperto in una distesa infinita di cespugli bassi, aggrappati ai sassi e alle zolle secche del terreno giallo.

Parson ama quel senso di scoperta e di apertura della sua terra: galoppare verso la palla del sole in mezzo a una vallata senza confini certi gli da un gran senso di potenza, lo rassicura.

Da quelle parti pare non succeda mai nulla, ma è solo la calma apparente di una natura che invece è sempre in movimento, frullata dal vento che fischia tra i cespugli, e popolata da mille animali invisibili che strisciano silenziosi, come i suoi pensieri.

A un occhio distratto il paesaggio è piatto e monotono, invece continua a degradare con discrezione nei colori della terra, e nell’altezza e densità dei cespugli. Parson cavalca dentro la larga sinfonia della natura che quel mattino lo vuole protagonista sul suo cavallo nero, mentre con lo sguardo corre all’orizzonte esaminando ogni possibile traccia del passaggio dell’altro. A un tratto gli viene su quella canzone irlandese e avverte un senso di freddo nella pancia: il vecchio deve essere lì intorno, quella è una delle sue manifestazioni, insieme al sigaro schiacciato.

Con uno strattone secco delle redini arresta il suo puledro, che si alza sulle zampe anteriori e muove il muso all’indietro per esaminare con l’occhio liquido e lungo le intenzioni del padrone.

Lo sceriffo non presta attenzione all’animale e al suo accenno di nitrito, se non per calmarlo con una leggera pacca sul collo sudato; si rialza appena sulle staffe e ruota lentamente la testa prima a destra, poi a sinistra, infine completa l’osservazione girandosi indietro con il busto.

Quando riprende a muoversi al passo, ha un sorriso amaro dipinto sul viso. La vallata è immersa nel silenzio più completo, rotto solo dallo strusciare di un serpente a pochi passi e dalla corsa affannosa di una lepre che salta da un cespuglio all’altro per cercare un riparo.

Ha dentro quella canzone fin da quando era bambino e ogni tanto gli viene su, come un’angoscia che si riproponga improvvisa nel cuore della notte e tenga svegli. È giorno, eppure Parson ha sentito ancora quella maledetta canzone irlandese, dentro il buio e il silenzio della sua pancia.



Tecnicamente si era trattato di incesto, e per quello era scappato dieci anni prima quando il vecchio li aveva trovati uno dentro l’altra, conficcati in un mondo che non c’entrava niente con il suo.

Il vecchio era comparso fuori all’improvviso e si era messo a urlare: - Piccolo bastardo, me la vuoi portare via! Annette è roba mia! - Poi era corso in casa, e Parson non aveva aspettato di vederlo uscire con il fucile in mano. Era già distante alcune centinaia di metri in groppa al suo cavallo, quando aveva sentito due colpi fischiare nell’aria.

Aveva corso a perdifiato nel deserto, valicato le montagne dello Utah e si era fermato solo quando il suo cavallo era stramazzato al suolo. Quando aveva tirato su la testa, un cartello diceva che era arrivato nello Wyoming e che cercavano giovani da arruolare nell’esercito. Si era messo in coda con gli altri di fronte a un portone, sentendosi subito a casa: c’era chi dava ordini e chi li eseguiva, nient’altro da capire e da temere.

La tristezza di avergli lasciato Annette nelle mani era stata però un dolore che lo teneva sveglio di notte, ma la legge era contro di loro - tecnicamente si era trattato di incesto - sebbene Annette fosse poco più vecchia di lui e fosse entrata in quella casa in riva al Colorado come seconda moglie e quindi matrigna.

Annette o Raggio di Luna, il suo nome quando stava ancora al villaggio Navajo, un gruppo di baracche sparse tra le zolle del deserto, due ubriachi dalla pelle bruna e i capelli lunghi che ciondolavano attorno, un mulo rinsecchito attaccato con una corda a un palo.

Fu lì che il vecchio la comprò dalla sua famiglia per qualche cassa di whiskey di pessima qualità e una partita di sigari avariati.

“Io sono sposata con quello” diceva Annette, e lo diceva deglutendo, come se ogni volta dovesse mandar giù a fatica il pezzo di carta che la legava al padre di Parson.

Il vecchio l’aveva portata in un ufficio e qualcuno le aveva fatto firmare un documento, e dopo lui le aveva detto che erano marito e moglie.

Adesso però quella stella cucita sul suo cappotto logoro diceva che lui era la legge, e che era l’altro a dover scappare, rintanandosi nel buio della notte come un animale braccato, che alza gli occhi al cielo e ulula alle stelle forse per supplicarne la direzione, ma più probabilmente bestemmiandone la luce che spara e abbaglia nei riflessi del cinturone e delle pistole, così come poco più indietro si ritaglia un piccolo spazio a forma di stella sul petto dello sceriffo Parson.



Il caso li aveva fatti rincontrare anni prima in una notte nera sulle montagne dello Utah. Parson, nella sua divisa blu di sottufficiale dell’esercito nordista, stava pattugliando le strade di una cittadina appena liberata e aveva sentito delle grida soffocate provenire dal piano rialzato di una casa di legno di colore rosa.

- Lascia stare, quello è solo il bordello! - gli aveva detto il soldato che pattugliava insieme a lui.

- Si riconoscono a distanza, hanno tutti quell’aspetto da casa di bambola - aveva continuato il soldato, ma a Parson la cosa non convinceva: lì dentro stava succedendo qualcosa.

- Certo che succede qualcosa, Parson, si stanno divertendo mentre noi siamo fuori al freddo - e poiché il sottufficiale si stava dirigendo verso la casa, aveva continuato: - Non avrai intenzione di spassartela anche tu?

Parson lo aveva gelato con lo sguardo, mentre apriva la porta. Non era chiusa a chiave.

A pianterreno non c’era nessuno. Una scala di legno portava al piano superiore e da lì arrivavano delle urla soffocate e il fischio lungo di una frusta. Conosceva bene quel suono e il dolore che seguiva lancinante.

Il soldato lo aveva guardato, facendosi serio in viso. A un cenno della testa i due erano saliti lentamente, stando attenti a non far cigolare il legno degli scalini, rotti in più punti.

Quando avevano aperto di scatto la porta con le pistole puntate, Parson aveva riconosciuto subito la faccia di suo padre, con l’espressione devastata di quando era ubriaco ed era preso dalla sua ossessione violenta.

La frusta, che aveva sentito fischiare fin da basso, era nelle sue mani e aveva lasciato i suoi lunghi ricami di sangue sulla schiena delle due ragazze di colore, imbavagliate e legate seminude al comò.

- Sono solo due puttane! - aveva urlato, ancora prima di aver riconosciuto il figlio nel sottufficiale in divisa nemica, che gli intimava di gettare la frusta e di seguirlo con le mani alzate dietro la testa.

Quando Parson, senza dire una parola, gli aveva puntato la pistola contro la schiena, solo allora il meticcio lo aveva riconosciuto, e gli aveva gridato: - Sei sempre stato un cretino!



E’ destino che siano sempre i versi e i lamenti delle sue vittime a tradirne la presenza. Altrimenti non sarebbe facile trovare quell’uomo che si nasconde bene in qualsiasi ambiente, un’arte che ha ereditato dal padre indiano che non ha mai conosciuto.

Per lui i confini non esistono: conosce sentieri, dirupi, caverne e cunicoli sotterranei inesistenti per gli altri. Di notte, quando era ancora un ragazzino, saliva sulle alture e guardava giù nelle gole rocciose, cercando, oltre le distese a perdita d’occhio, un’ombra, una luce, un qualcosa che catturasse la sua attenzione, che fosse un invito al suo bisogno di andare.

Era il miscuglio di pacatezza e insoddisfazione che soltanto un mezzosangue può sentire. Non aveva paura di nulla, tranne che di se stesso.

Sua madre, appena giunta dall’Irlanda con i suoi genitori, era stata violentata da un guerriero Chejenne quando aveva solo sedici anni: nato dalla rabbia del padre e dalla paura della madre, aveva fuso i due stati d’animo in uno solo, denso e cattivo, e di quello si era fatto scudo per difendersi dalla vita.

Aveva imparato a uccidere gli animali e a non fidarsi di nessuno. Glielo avevano insegnato gli indiani che aveva frequentato al villaggio Navajo fin da quando era ragazzino. E aveva continuato a frequentarli anche da adulto per i suoi commerci di cui aveva fatto un mestiere, se così si può chiamare l’arte di ingannare un popolo di disperati nullatenenti, vendendogli a caro prezzo i generi che li avrebbero resi ancora più schiavi degli yankee, intontiti dal loro whiskey e dal loro tabacco.



Il cavallo del vecchio meticcio, legato stretto a un cespuglio, si sta sfregando contro le foglie spinose, e nel cercare di liberarsi ha fatto delle redini un cappio che lo serra sotto la gola mentre le spine gli feriscono il muso.

Il puledro di Parson ne sente i lamenti e si blocca all’improvviso in mezzo alla radura. Lo sceriffo, allora, gli lascia briglie sciolte e si lascia guidare: sa che i sensi fini dell’animale lo possono condurre là dove non potrebbe la sua intelligenza. Infatti, vicino al cespuglio che sta graffiando il muso dell’animale, c’è uno dei suoi sigari, come sempre schiacciato a terra ancora a metà.

Per prima cosa lo sceriffo libera il cavallo del meticcio e lo lascia partire al galoppo. L’inseguimento si sarebbe concluso tra quei monti, in ogni caso. Poi, armato di fucile, comincia a salire, muovendosi con circospezione. Non può essere molto lontano.

Quando è in cima alla vetta, lo vede. Anzi, ancora prima di vedere quella macchia grigia che risalta in mezzo al rosso delle rocce ferrose una trentina di metri più sotto, gli arriva quel canto. Suo padre sta dormendo, e il canto, anche questa volta, gli viene su dalla pancia.



Era nello sgabuzzino del sottoscala, in mezzo alle scope e al secchio della pattumiera; era sempre lì che lo rinchiudeva quando quelle venivano a trovarlo. Sua madre malata dormiva al piano di sopra, e per essere sicuro che il figlio non andasse a svegliarla, lui lo rinchiudeva in quel buco nero del sottoscala, dove doveva stare piegato a metà per non picchiare la testa.

- Tu stai qui, fatti un riposino - gli diceva, stendendogli una delle coperte da cavallo ammonticchiate in un angolo e chiudendo velocemente la porticina con due mandate.

Finiva sempre con lui che grugniva come un orso, smozzicando insulti nella lingua dei nativi, e con quelle che piangevano, mentre lui le prendeva a schiaffi, sì quelli erano proprio schiaffi, conosceva bene il suono di quelle mani sulla pelle.

Dopo averle sbattute fuori di casa, cominciava a intonare quella vecchia canzone irlandese che aveva anche cercato di insegnargli: un canto lento e scuro che raccontava di navi e di tempeste, di morti e di assassini. Il bambino sentiva la voce ubriaca del padre immergersi in quel suo mondo lontano e opaco, e allora si rintanava ancora più in fondo allo sgabuzzino nero. Per non vedere nemmeno quel filo di luce dallo spiraglio dell’infisso, si buttava addosso la coperta: sapeva di cavallo e di muffa e lo stordiva talmente che alla fine riusciva ad addormentarsi.

Adesso è l’altro a dormire. Lo sceriffo lo punta seguendo con l’occhio il filo della canna del fucile fino al cerchio del mirino: dentro quel cerchio c’è suo padre, un solo colpo e non ci sarebbe più, e con lui quella canzone.

- Pam ! - fa con la bocca, e mette via il fucile.



Quando aveva trovato suo padre nel bordello dello Utah, l’aveva fatto arrestare. Doveva scontare parecchi anni, dato che aveva usato l’occasione della guerra per uccidere molti dei fantasmi che da sempre avevano popolato la sua mente. Le sue molte vittime si erano portate oltre la vita l’immagine di quell’uomo in divisa grigia che rideva mentre li ammazzava.

Nel corpo vivo di Annette, invece, il vecchio aveva scolpito la fitta trama dei suoi desideri tormentati: la sua piccola schiena bruna, coperta dai ghirigori delle cicatrici, era stata la sua tela preferita e lì la sua mano aveva potuto lavorare nel silenzio della casa sulla riva del Colorado, mentre lei mordeva il cuscino e si asciugava le lacrime nelle lenzuola.

Era stato il sorriso di Annette ad accogliere Parson e il suo abbraccio a farlo risentire a casa quando varcò quella soglia, che aveva lasciato in una fuga all’impazzata dieci anni prima.

Lui era in prigione, finalmente, rinchiuso dentro il suo tormento, e loro due invece fuori a ritrovare i sentieri che si erano smarriti per tanto tempo, ma che parevano nuovamente lindi e puliti. Gli articolati disegni sulla schiena di Annette, i tatuaggi dell’amore molesto di quell’uomo, lo avvicinavano a lei più di quanto sfarzosi vestiti o biancheria di pizzo avrebbero mai potuto fare, e li facevano sentire uniti anche nel dolore che entrambi avevano provato per colpa dello stesso uomo.

Quando la guerra finì divenne lo sceriffo della contea, e la stella che gli brillava sul petto testimoniava senza dubbio che lui era dalla parte della ragione, sempre e comunque.

Ma il tormento sottile di Parson e Annette, che si sapevano amanti innocenti, ma incestuosi, aveva continuato ad agitare le notti di entrambi, e si insinuava sotto la consapevolezza della luce del giorno e al di là della ragione a cinque punte della legge cucita sul cappotto.

Quando Parson aveva saputo che suo padre era evaso e che qualcuno gli aveva sentito dire che voleva riprendersi ciò che era suo, non attese di vederlo comparire sulla soglia, così come non aveva aspettato che lui rientrasse a prendere il fucile quella notte.

Portò Annette a casa di amici, montò a cavallo e iniziò la caccia.



“Anche i peggiori delinquenti paiono bambini mentre dormono” pensa, osservandolo rannicchiato a terra, con un’espressione serena del viso, forse solo i postumi di una sbornia.

Il vecchio con una mano tiene per il collo una bottiglia vuota di whiskey e nell’altra stringe la pistola. Parson preme col piede sul suo braccio destro e si impossessa subito della pistola, mentre con un calcio gli fa saltare via la bottiglia dall’altra mano. Sa che una bottiglia può trasformarsi in un’arma micidiale e non vuole correre dei rischi.

Ancora prima di aprire gli occhi, il meticcio cerca di afferrarlo per il piede, ma un calcio in faccia lo stordisce per qualche istante.

Parson si tiene ora a un paio di metri di distanza con le due pistole puntate, e senza dirgli niente gli fa cenno di rialzarsi.

Appena in piedi, non avendo altre armi con cui ferirlo, il vecchio si mette a sparare con la bocca: - Sei sempre stato un cretino, buono solo a prenderti i miei scarti, sceriffo! - dice, pronunciando quell’ultima parola come se si trattasse del peggiore degli insulti. Poi sputa per terra, proprio in mezzo ai piedi di Parson, che lo ascolta impassibile.

- Ti sei preso quella puttanella di un’indiana che ti ha sempre fatto sangue, non è così, sceriffo! - Ride sguaiatamente, ma Parson non reagisce, e allora continua: - Te la puoi prendere. Bastava chiedermelo e te l’avrei passata io, è roba mia, l’ho pagata regolarmente con tanto di contratto.

Parson non riesce a dissimulare il fastidio generato da quelle parole e l’altro continua, alternando le risate alle parole: - Non avrai veramente creduto alla storia del matrimonio, vero? Dài, sceriffo, non sarai stato così ingenuo da credere che io mi fossi sposato quella? La chiamavo moglie solo per farla stare buona, almeno questo l’avrai capito, no?

L’indice di Parson preme sul grilletto che comanda il percussore: quel piccolo martello ha quasi terminato la sua corsa, qualche millimetro e un colpo sigillerebbe la bocca di suo padre per sempre.

Invece le parole di quello continuano a sgorgare insieme al puzzo di whiskey: - Ma sì, vi siete trovati, due bastardi che si sfogano l’uno nelle braccia dell’altra.

Parson diminuisce la pressione sul grilletto e il vecchio continua: - Già, non ho mai saputo di chi sei figlio, sceriffo! Certamente non mio. Quando ho conosciuto tua madre, lei era già incinta, ma suo padre mi aveva promesso quella bella casetta sulla riva del Colorado. Si fanno degli errori nella vita, il mio è stato quello di accettarti, e vedi che cosa ne ho in cambio!

L’uomo continua a traboccare il suo marciume, ma mai Parson ha sentito parole più gradite, e mentre il vecchio insiste nel lamentarsi che lui si sta portando via tutta la sua roba, la casa e la sua indiana, lo sceriffo è già lontano da lì, i conti chiusi definitivamente con il passato.

Il resto lo fa come per routine, senza starlo ad ascoltare. Non si sarebbe versato altro sangue a causa di un Parson e quel meticcio avrebbe finito la sua vita rinchiuso in una cella, a intonare da solo la sua maledetta canzone irlandese.




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