Andrò via senza dire niente di Teresa Verde è opera sfuggente da bere
d’urgenza e tutta d’un fiato, come acqua di fontana raccolta nelle mani a
coppa. Lo è già nella struttura che non sappiamo se definire raccolta di
racconti a tema o romanzo breve a più voci.
Eppure, l’autrice sembra volerci rassicurare fin dall’inizio “E sia ben chiaro che non ho scritto nulla di
nuovo”, per concludere che “A dire il
vero non c’è nessuna differenza tra gli uomini, anche se in molti credono che
ve ne sia”.
Ma si sa quanto
agli autori, soprattutto a quelli bravi, piaccia depistare il lettore,
trasportandolo in territori che a tutta a prima gli paiono familiari per poi
divertirsi a lasciarlo solo in campo aperto, nudo e senza riferimenti noti. Non
faceva così Kafka, facendo apparire plausibile e persino dovuta la metamorfosi di
un commesso viaggiatore in scarafaggio? Non faceva così Bukowski, autore certamente caro all’autrice
che lo cita in apertura, trasformando il banale quotidiano in materia
corrosiva?
Eppure Teresa Verde
ha ragione: non scrive nulla di nuovo e racconta di uomini che sono quelli che
incontriamo tutti i giorni salendo sull’autobus “tra odori di brodini da ospedale e candeggina” oppure di donne che
ci siedono a fianco al lavoro con “varie
tonalità di giallo malcontento” e “di
gente che doveva andar di lena a guadagnarsi il pane in fabbriche fatiscenti”
o ancora di case di periferia che “sputavano
un sacco di bambini di strada”.
Sono questi,
banali, quotidiani, gli scenari delle storie che si intrecciano in Andrò via senza dire niente. Che pero’
paiono palchi di teatro, fondali finti che di notte vengono smontati per essere
trasformati in carne e sangue. Perché “quando
vivi di giorno, non lo sai, non sai niente”. E di notte Teresa Verde ci
prende e ci porta dietro il sipario
apparente delle cose e lo fa con la frusta del linguaggio pungente che la
caratterizza, ed è tutta lì la novità e la differenza dell’opera. L’autrice ci
stordisce pagina dopo pagina con la sua lingua tutta sensoriale, lavorando con
suoni, colori, odori, sapori e persino consistenze come se questi fossero la
sua grammatica del quotidiano, che lei fonde in inedite sinestesie “la caramellosa avversione per gli autobus, l’asciugamano
color worchester che odorava di menta e ginseng” e poetici ossimori “la sabbia luminosa, il fumo di ghiaccio, il
cieco che vede i colori”.
E d’altronde non
si presenta così già dal nome, Teresa Verde, col quel patronimico che sa di
fresca primavera e invece di estate e terre arse il nome proprio?
Ma se i colori e
gli odori sono il suo personale e immaginifico alfabeto, con questo lei compone parole d’amore e di
morte. Di queste due parole umide e vecchie è composto l’estratto secco
dell’opera e la sua ragione di esistere, la sua urgenza narrativa.
E di suicidi, quindi,
o di morti premature, d’incontri d’amore, di stupri e d’abbandoni,
dell’impossibilità di continuare a vivere e della necessità di farlo, comunque.
Nulla di nuovo, certo. Storie di uomini e
donne come tanti, senza nessuna differenza,
come quelli portati sulla scena dal teatro greco e da Shakespeare.
Temi universali,
eterni che Teresa Verde, a modo suo, ci inietta sotto pelle come antidoto alla
banalità del quotidiano.
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